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Prima della partenza - Sentimenti

 
Non era ancora l’alba quando l’inquilino del piano di sopra ruppe con un forte tonfo il silenzio irreale della camera.
“Ecco il matto che ricomincia” pensò tra sé e sé, sdraiata sul morbido letto, con le braccia incrociate sotto al cuscino. Tese l’orecchio, attendendosi un altra prova della follia di quello squilibrato, ma con suo grande stupore la pace tornò subito a regnare sovrana.
“Ora manca solo il rito del gatto lanciato dalla finestra e allora sarà un’altra bella giornata…” sospirò silenziosa.
Lui non si svegliò, il suo respiro profondo e regolare lo confermava. Si era voltata immediatamente per vedere se quel rumore improvviso avesse turbato i suoi sogni, preoccupata; forse in cuor suo sperava che l’avesse scosso. Si diede subito della stupida: era un timore infondato, nemmeno le cannonate avrebbero potuto interrompere il suo idillio con Morfeo, oramai lo conosceva bene. Sin troppo. Alzò un sopracciglio, e strinse un poco le labbra. Non approvava.
“Basta fare la mamma, smettila…” consigliò di nuovo a se stessa.
Peccato che quando avrebbe dovuto metterlo in pratica, quel consiglio, non se lo ricordava mai… amnesia da innamoramento.
Tornò a guardare il soffitto, ma la sua mente ormai andava oltre: aveva perduto la cognizione del tempo, quella notte il suo sonno era stato inquieto; un sonno di poche ore, che non le aveva dato tempo di ritemprarsi totalmente. Si passò una mano sulla fronte, forse per scacciare i cattivi pensieri, o forse per togliere le piccole gocce di sudore che la imperlavano.
Si sentiva senza forze, senza energie, e non era il primo caldo di Giugno a renderla così spossata, così svuotata. Si accarezzò sotto gli occhi con un dito, leggera, e li sentì lievemente gonfi: aveva riposato poco e il pianto aveva fatto il resto. Un pianto breve, ma intenso. Non piangeva per debolezza, ma di rabbia e frustrazione. E piangeva silenziosa, ogni volta, perché lui non potesse sentirla, perché così non potesse chiederle “Che hai?!?” con quella sua aria stranita...
Gli tirò un calcio nello stinco. Non si mosse.
“Sei un bradipo! Peggio! Un’ameba… ma come fai a dormire sempre e perennemente, 365 giorni l’anno 24 ore su 24?!”
Si girò sul fianco, per guardarlo meglio mentre dormiva, e si sollevò appena per appoggiare la guancia sul palmo della mano. Rimase così, a riflettere, e si lasciò sfuggire un sorriso beffardo.
“Che cosa avrò mai visto in te… devo ancora capire che cos’è che mi ha spinta ad amarti… ancora non lo so…”
Non se lo ricordava, il motivo, in quel momento le sfuggiva. Davanti ai suoi occhi non vedeva nemmeno la metà della persona per la quale aveva perso la testa mesi or sono, e quello che la faceva incazzare era la propria stupidità… la stupidità di essere nel suo stesso letto, di nuovo, ancora una volta. Il sorriso da beffardo si fece sarcastico.
“Forse avrei bisogno di un bel periodo di disintossicazione. La dipendenza da un uomo va curata… e in fretta.”
Si scosse, si avvicinò a lui e appoggiò il viso alla sua spalla, i due corpi che si sfioravano appena, abbracciandolo poi per regalarsi l’illusione di sentirlo vicino come la prima volta.
“Sai che c’è? Che dovrei smetterla di correrti dietro, di inseguirti come il gatto fa col topo… riuscirci però…”
Ancora non mandava giù il fatto che fosse stato con altre, mentre le diceva quanto fosse importante per lui. Aveva represso il proprio orgoglio di donna ferita, per amore o per testardaggine, o forse per farsi del male. Ed era stata riconciliazione. Quanto le piaceva discutere le questioni a letto… era pure piacevole dopotutto.
“E poi sono io che non credo ai giornaletti banali che parlano di masochismo femminile… stando con te rischio un’ulcera cronica, e ancora non ci credo…”
Iniziò a baciargli il collo. L’odore della sua pelle la scioglieva… le piaceva così tanto, ci perdeva la testa ogni volta. Ecco, forse era quello che l’aveva fatta innamorare. Si ripromise di vuotare nel cesso la boccetta di profumo che lui teneva nel mobiletto del bagno, prima di andarsene, “così non ci cado più, idiota!” probabilmente però non ci credeva nemmeno lei.
Si accoccolò contro di lui, e si mise ad accarezzargli il petto e i fianchi con le dita, a stropicciargli la pelle, a pizzicarlo dolcemente. Aveva voglia di lui, ma considerando i suoi tempi di reazione per capire qualcosa appena sveglio, si disse che doveva avere la solita pazienza, “perché il principino, qua, deve essere capito, se no s’offende… te la do io la comprensione…”
D’un tratto, si accorse che dalle persiane filtrava un po’ di luce, e si chiese quanto tempo fosse passato dalle prime intemperanze mattutine del matto. Vide la propria valigia a terra, in un angolo, immersa nella penombra della stanza, e lo stomaco le si chiuse: era lì, già pronta dalla sera prima, che l’attendeva. Una volta partita, poteva pure buttare nel cesso anche il mondo insieme al suo profumo: l’avrebbe di nuovo perso, fino a quando non poteva saperlo.
“Ooohhhh… al diavolo!!”
Sul comodino, notò il cellulare di lui, sotto carica dalla sera prima. Stava ancora lì. Una sensazione violentissima la prese all’improvviso; la curiosità era troppa, e troppo forte. Cedette e non soffocò l’impulso: si spostò piano per non fare rumore, lo afferrò e iniziò a controllarlo in ogni sua parte. Si odiava per quello che stava facendo, ma non poteva frenarsi. Rubrica… messaggi… “lo sapevo.. sì, ecco.. lo sapevo…”
Lo stomaco, già chiuso, diede segni di sconvolgimento. Le veniva quasi da vomitare dalla rabbia. Lesse tutti i messaggi, impassibile, con un’espressione indefinita, quasi assente, ma come se sapesse già tutto; li lesse tutti in apnea mentre poteva sentire la bile salire lentamente. In fondo se lo aspettava.
“Tu non sai in che guaio ti sei messo, cocco…” pensò tra sé. L’impassibilità d’un tratto aveva lasciato spazio al fuoco. Continuò a cercare, frenetica, isterica, per trovare nulla più di quello che già sapeva.
“Ma sentila questa, che stronza, addirittura ha il coraggio di mandarti i messaggi per dirti che è gelosa di te… e con che coraggio?!? Con che diritto?! ma io a questa l’ammazzo…” le dita tremavano nervose e pigiavano sui piccoli tasti di quel telefono, che già, nei suoi pensieri, avrebbe seguito il profumo nel cesso, “dopo di che tirerò l’acqua e dirai addio alle tue amichette…”
Si alzò, cercò la sua biancheria sparsa per la casa, trovandone un po’ nella sala e un po’ sotto al letto… d’altra parte, anche questo aspetto le piaceva di lui, quella sua passionalità selvaggia, che non lasciava spazio a romanticherie insulse… si mise il reggiseno a rovescio, il perizoma al contrario. Con una calza infilata e l’altra in mano iniziò a girare per tutta la casa borbottando fra sé e sé come una pazza invasata: spalancò la finestra che dava sul cortile interno, per rinfrescarsi le idee. Mezza nuda, le guance in fiamme, le mani appoggiate al davanzale, non riusciva a smettere di inveire; d’un tratto recepì su di sé lo sguardo della vecchietta che abitava nell’appartamento di fronte: la osservava ammutolita e allibita. Forse fu questo a farle recuperare la calma.
“Buongiorno signora, dormito bene? Questo caldo fa andare giù di testa eh?” disse, sfoggiando un sorriso; non era tra i suoi più belli, ma meglio che niente. La vecchia annuì, poco convinta, e augurandole buona giornata richiuse le imposte.
“Pure le comari impiccione tra i piedi... possibile?! Ok e ora… ora basta!”
Voleva altre prove: meticolosa e calcolatrice, si mise a cercarle, come se quelle che aveva già non fossero abbastanza. Guardò tra le lettere e le foto, ne controllò le date, dopo di che le raccolse tutte e ne fece un piccolo falò dentro al bellissimo centrotavola del salotto. Commentò soddisfatta il risultato: “Un bel piatto in vetro di Murano affumicato… ce l’hai solo tu adesso… un pezzo unico! Mentecatto che non sei altro...”
Rovistò tra i libri e le videocassette con una precisione e un puntiglio da investigatrice, ma nulla di interessante; controllò sul suo personal computer e letta la posta elettronica, fece ciò che le pareva più opportuno: “Uhm.. dunque, com’è che si fa? Vediamo… ah già… ecco qua… Dos?
Sì esatto… poi… eccoti qua! Il mitico FORMAT C:”
E anche il computer morì con tutti i suoi dati: “Ora c’è sicuramente più spazio in memoria…” sibilò.
Si spostò alla cucina: poco e niente, una lavagna magnetica scarabocchiata con una calligrafia che non era la sua, ma nulla più. Passò al bagno, già in disordine, e guardò nei mobiletti adiacenti allo specchio… di interessante trovò solo il profumo che metteva sempre lui, quello che amava tanto, e mantenendo fede al suo proposito, lo vuotò nel water e tirò l’acqua.
“Ora i topi della tua fogna ti ringrazieranno, caro...”
Gettò la boccetta ormai vuota nella spazzatura, niente raccolta differenziata quel giorno… “al diavolo anche l’ecologia!” sbottò, mentre il matto al piano superiore ricominciava a farsi sentire. Diede un’occhiata fuori dalla finestra, di sfuggita, appena in tempo per notare l’ombra di un animale nero a quattro zampe che miagolando disperato cadeva di sotto... fortunatamente era solo il primo piano…“allora questa è davvero una bella giornata...”
Sfinita, tornò in salotto e si sedette sulla poltrona con vista sulla camera da letto. Si mise a fissarlo, mentre ancora dormiva beato e si godeva il suo sonno del giusto, ignaro che al suo risveglio si sarebbe trovato solo. Dopo tutto quel trambusto aveva la mente vuota, lo sguardo perso. Non l’avrebbe salutato. Nemmeno un biglietto, un bacio, nulla. L’avrebbe mollato così, da vera donna dura, senza dire una parola, sparendo nel nulla. Tra qualche ora tutto sarebbe finito, ma lei sentiva una parte di sé morire, poteva percepirlo. Si sentiva distrutta.
Fuori la vita, piano piano, rifluiva nelle strade, anche se il lunedì rendeva tutto più faticoso. Chi al lavoro, chi alla scuola che stava per chiudere i battenti, chi al mercato a fare spesa… a ognuno i propri pensieri. A lei non rimaneva che tornare a casa.
Si alzò, andò a rovistare nella valigia aperta per trovare qualcosa da indossare per il viaggio: un paio di jeans, una maglietta leggera, scarpe da ginnastica. Comoda, libera, non desiderava nient’altro. Chiuse a fatica la borsa strapiena di roba, e si avviò verso la porta.
“Avanti, apri quell’uscio e vattene... avanti...” si incitò. Ebbe un attimo di esitazione, e si voltò: come sempre, lui non s’era accorto di nulla. Nemmeno questa volta, come ogni volta. Se ne stava lì a dormire ancora, e avrebbe dormito fino a quando lei, arrivata a casa, non l’avrebbe chiamato per dirgli “non ti preoccupare eh? tutto bene, il viaggio è andato bene...” come un copione sempre uguale a se stesso, che lei conosceva a memoria ormai. Quel giorno sarebbe stato diverso.
Uscì di casa con un peso sul cuore. Non lo avrebbe chiamato. Scese nel cortile e vide il gatto nero e macilento dell’inquilino matto andare zoppicando leggermente sotto alla siepe di bosso, per leccarsi le ferite provocate da un padrone che non lo amava. Ebbe un moto di compassione per quella povera bestia, che non aveva colpe, se non quelle di essere capitato nella casa sbagliata, con la persona sbagliata. Si augurò in cuor suo che qualcun altro l’avrebbe raccolto, qualcuno che avesse un minimo di umanità.
“Ti porterei via io di qui, ma non reggeresti un viaggio con me... non sono una buona compagnia, oggi sto messa peggio di te” gli sussurrò, mentre il gatto la osservava con quei suoi occhi gialli socchiusi. Pareva aver capito, e si accoccolò sconsolato per riposare. Quella sua rassegnazione la intenerì.
Lei volse gli occhi al cielo, senza una nuvola e di un azzurro splendente, che salutava il sole già caldo in quella mattina di Giugno; controllò l’orologio, si incamminò verso la fermata dell’autobus, mentre qualcosa le si lacerava dentro.
“Chi l’avrebbe detto. Ci avevo creduto, ma non sei tu...” pensò tra sé e sé. E mentre se ne andava, sentiva ancora la sua pelle, come quando le sembrava che tra loro non dovesse finire mai.


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